domenica 21 aprile 2013

Acido Lattico - Il Domenicale #4


 QUEL TERRIBILE LAVORACCIO DEL GASTROENTEROLOGO





“Ma quanto è largo il tubo?”
Per un medico, se tu fai una domanda significa che sei uno che fa troppe domande. “Stia tranquillo, non se ne accorgerà nemmeno”.
E pensare che tutto è iniziato con un po’ di nausea, mal di stomaco, ma io credevo di essermi innamorato. Poi ho cominciato a rigurgitare pasti maciullati in qualunque momento e in qualunque posto, il che era imbarazzante negli appuntamenti galanti, specie durante il coito: “Credimi, non è per te”.
La cosa va avanti e mia madre mi fa: “Dovresti andare da un gastroenterologo, lui ti risolverà tutti i problemi”.
Io, già dall’inizio, ero perplesso: “Mah, mi dirà di fare una gastroscopia, tanto vale…” “Macché gastroscopia” mia madre minimizza.
Entro nello studio, e comincio a raccontare alla specialista seduta di fronte a me del mio disagio gastrico. Mentre parlo, mi guarda come per dire: “Non hai un cazzo, sei solo un cacasotto. Non hai un bel niente”. Tanto che quello sguardo mi tranquillizza.
Noto però che nelle mie piccole pause accenna frasi del tipo: “Si potrebb…”, ma io la interrompo e continuo col mio racconto. Così per tre volte.
“E a quel punto mia madre mi ha consigliato di venire da lei” concludo.
“Si potrebbe fare una gastroscopia”.
Per i giorni seguenti assillo mia madre con i dubbi che il medico non m’aveva tolto: “Quanto è grosso il tubo? Per quanto me lo tengono in gola?? Ma è pericoloso??!”
Lei, da buona madre, mi tranquillizza: “Non è più grosso della mina di una matita. Durerà un minuto e mezzo. Sta’ tranquillo, io l’ho fatta due volte”. In effetti, il fatto che lei fosse sopravvissuta (due volte!), mi faceva stare meglio.
Arriva il maledetto giorno, e mi dirigo all’ospedale con l’espressione di uno che sta andando a morire, ammesso che abbiate mai visto la faccia di uno che sta andando a morire (ad esempio, io no).
“Cappai!” chiama l’infermiera.
Mi dirigo verso la stanza delle torture, entro, e vengo accolto da una donna di mezza età che, a dirla tutta, mi ispira fiducia, affiancata da una ragazza (probabilmente la sua assistente), che a dirla tutta mi provoca un erezione.
“Si sdrai sul letto”. L’erezione continua.
Erezione che svanisce improvvisamente con la visione del tubo che sarebbe dovuto entrare, attraverso la mia gola, dentro di me fino allo stomaco. Sbalordito (o terrorizzato, fate voi), comincio a chiedermi che tipo di matite usa mia madre. Forse, per “mina di una matita”, intendeva il manico di una mazza da baseball (e, in effetti, fu così che si giustificò quando le chiesi spiegazioni).
Vedo di fronte a me lo schermo collegato alla telecamerina posta all’estremità del tubo dove, a breve, avrei visto proiettato ciò che c’è nel mio stomaco. Sarebbe fico se nel mio stomaco si vedessero le spine di pesce, come nei cartoni animati, penso, per sdrammatizzare.
La ragazza mi fa aprire la bocca e mi fa ingerire tre spruzzi di uno spray amarissimo che nel giro di un secondo mi fa perdere la sensibilità della gola. Ingoio e non sento nulla, tanto che penso che potrei consigliarlo alla mia ragazza per il sesso orale: non avrebbe più scuse.
Finalmente arriva il momento del valium, le mie vene stavano fremendo.
Mi fanno girare da una parte e la donna m’infila il tubo in bocca. Arriva alla gola e io comincio ad affogarmi un po’ come Sasha Grey in una delle sue migliori scene (anche perché il tubo ricordava le dimensioni del pornoattore). Vado avanti così finché, improvvisamente, il valium diventa il mio migliore amico e mi stacca completamente il cervello. Da lì non ricordo più nulla.
Si scopre che ho, parafrasando, una valvola che non si chiude. Mia madre è ottimista: “Potresti andare da un bravo gastroenterologo e mostrargli i risultati della gastroscopia. Lui ti dirà cosa fare”.
Io, un po’ confuso poiché ero convinto di averlo già consultato il “bravo” gastroenterologo, ribatto: “Certo, così mi consiglia di fare una colonscopia, tanto vale…” “Macché colonscopia”.
Vado dal gastroenterologo, quello bravo, e gli racconto la mia storia. Alla prima pausa, lui accenna una frase: “Si potrebb…”
Mi fermo, faccio un grosso respiro: “Scusi, deve dire qualcosa?”
“Si potrebbe fare una colonscopia”.

(Alessandro Cappai)